Marino Schiavina
(fucilato ad Anzola)
Il racconto della moglie Norma
Dice la Norma con voce commossa: "Sono passati 40 anni e mi sembra ieri. Ti racconto un episodio dell'adolescenza di Marino che mutò il corso della sua vita.
Marino era nativo di S.Agata Bolognese, dopo l'età scolare i genitori lo misero a fare il fattorino da un falegname. Si sa che allora i falegnami lavoravano di pialla, facevano di tutto, dalla credenza tutta scherzata, alla cassa da morto.
Un giorno il falegname lo mandò a misurare un morto. Per questa incombenza Marino ebbe un tuffo al cuore, ma non osò replicare,perchè se si fosse rifiutato il maestro l'avrebbe ridicolizzato raccontandolo ai clienti.
Marino prese un foglietto di carta ed il metro e se li mise in tasca, mentre un pezzetto di lapis lo mise sull'orecchio come aveva visto fare al suo maestro, saltò in sella alla bici e per farsi coraggio, mentre pedalava,cominciò a fischiettare.
Arrivato alla casa del morto, prima di entrare nel portone, smise di fischiare ed assunse un contegno adatto alla circostanza. Una donna che stava sulla soglia gli indicò dov'era la stanza.
Contrariamente a quello che si aspettava, trovò il morto tutto solo su un pagliericcio di foglie di frumentone posato su due cavalletti di legno. Con disinvoltura apparente, il cuore sembrava impazzito tanto gli batteva forte, prese fuori dalla tasca il metro e lo sppoggiò sul corpo immobile. In quello stesso istante le mani del morto si mossero. Marino scappò terrorizzato. Si seppe poi che un topo,passando sotto i vestiti, aveva dato l'impressione che le mani si muovessero.
Marino rimase traumatizzato e, per quanto i genitori insistessero, volle cambiare mestiere e diventò barbiere.
Questo fatto gli procurò uno choc che lo accompagnò nella sua breve vita.
Quarant'anni fa o, per meglio dire, prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, il barbiere non era come ora. La gioventù di oggi ha sempre fretta, dal barbiere vuole perdere il meno tempo possibile. Oggi vi sono una infinità di passatempi:
viaggi, monti, mare, motorini, automobili, bigliardini ecc.., ci sono perfino sociologi per organizzare il tempo libero.
Ai tempi di Marino, di domenica, i più fortunati andavano a Bologna a vedere il "varietà" oppure allo stadio, mentre Marino rincasava sempre dopo, le tre pomeridiane, perchè nei giorni festivi la gente aveva più tempo per il barbiere.
Per tutti gli altri c'era il dopo lavoro, oppure l'osteria del paese.
Ecco perchè la bottega del barbiere era un punto di incontro, i ragazzi ci andavano per chiaccherare, per passarvi un'ora anche se non avevano bisogno di barbiere, magari per affacciarsi sulla soglia e fare un "tirino" alle ragazze che passavano per strada.
Marino era un ragazzo aperto, gioviale,faceva barba e capelli a tutti, sia ricchi che poveri, sia rossi che neri. Aveva sempre la bottega piena di giovani e dal di fuori si sentivano le loro risate.
Il fascismo avrebbe voluto che ad Anzola tutti i luoghi pubblici e tutte le persone che li gestivano fossero schierati dalla sua parte. Marino,che non aveva mai voluto la tessera del Fascio, era pressato continuamente dai fascisti del paese, ma lui era irremovibile, rispondeva che non la prendeva e basta, poi si metteva subito a parlar d'altro. Non è che fosse un antifascista, intendiamoci bene, era timido, ma era di carattere, non si lasciava impressionare od influenzare da chicchessia.
Quando cascò il fascismo, può darsi benissimo che fosse nella piazza del paese assieme agli altri, donne vecchi giovani.
Quel 25 luglio 1943 fu una gioia collettiva di tutto il paese. Marino partecipò all'assalto dell'ammasso del grano.
L'uccisione delle due donne lo impressionò a talò punto che sempre ne parla e diceva: "Norma, le mamme si fanno ammazzare pur di sfamare i loro figli". Poi prendeva in braccio la Silvia e la coccolava. Arrivò un momento in cui pochissimi pensavano a farsi barba e capelli. A dire la verità non c'era nemmeno sapone per lavarsi, figurarsi quello da barba. Nel cinema di Anzola era sfollato un reparto dello stabilimento Ducati di Borgo Panigale. Marino si fece assumere e andò a lavorare. Gli diedero il tesserino di circolazione e questo per lui fu una grande cosa, con quello in tasca si sentiva più sicuro. Poteva mangiare là,ma lui preferiva tornare a casa. Fece amicizia con una interprete tedesca e spesso mi parlava di lei.
Nell'agosto 1944, i partigiani fecero saltare la Caserma dei Carabinieri. Allora abitavamo nella casa dei Chiarini, una rete metallica ci separava dalla Caserma. Se la carica fosse stata un tantino più grande saremmo saltati in aria pure noi Marino fu fermato ed interrogato. Questo fatto mi preoccupò perchè, pur sapendo che mio marito non era nelle formazioni partigiane,quel fermo mi dava la sensazione che fosse segnalato come elemento sospetto.
Questa fu la vera ragione per cui, quando l'11 settembre 44 fu ucciso un tedesco,per precauzione, avvisai mio marito di stare via da casa. Erano circa le 20,30, sentii degli spari ed un correre di gente, corsi giù e trovai la Silvia intenta a giocare, chiesi a qualcuno cos'era successo e da dove venivano gli spari che avevo sentito, nessuno mi diceva niente:
avevano ammazzato mio marito e io non lo sapevo.
Ci dissero poi che l'interprete tedesca, quando capì cosa stava succedendo, si fece incontro ai tedeschi dicendo che il barbiere lavorava regormente per cui era escluso che fosse un colpevole. I tedeschi risposero che era nella lista fornita dai fascisti locali, pertanto innocente o no dovevano passare alla esecuzione. Trovammo Marino davantoi alla Cooperativa in un lago di sangue: Io,la madre,la sorella sembravamo impazzite dal dolore.
Continua la Norma piangendo:"Ho ancora l'asciugamano che coprì Marino. I fascisti non volevano che venisse rimosso.
Lo vegliammo tutta la notte,ma neppure la mattina ci diedero il permesso. Solo a metà pomeriggio potemmo portarlo via
Questa lezione doveva servire ad intimorire gli Anzolesi, ma l'effetto fu contrario, come ebbe a dire Buldini. Il paese si schierò con Marino e l'odio contro i fascisti e tedeschi aumentò e con esso il movimento partigiano. Io fui invitata da Buldini ad una riunione.Da quel momento mi impegnai a fare tutto quanto era nelle mie possibilità per aiutare la Resistenza.
Rincasando dissi all'Elvira, madre di Marino, che da ora in poi anch'io avrei aiutato i partigiani. Con mia grande soddifazione l'Elvira rispose che facevo bene e dal quel giorno cercò di manifestare in tutti i modi possibili l'odio che portava contro coloro che avevano stroncato la vita del figlio suo."
Oliano Bosi
(caduto nella battaglia di Porta Lame)
Racconto della figlia Iolanda
"Al tempo della guerra la famiglia era composta dal nonno Raffaele e
dalla nonna Maria; dal figlio Angelo e la moglie Prima che a loro volta
avevano due ragazzi Oliano e la Iolanda; l'altro figlio, rimasto in fami-
glia, si chiama Celestino, era sposato con Stella, avevano due figli:
Alfredo e Renato; c'erano inoltre la figlia Paolina e il servitore
Aristide. Tutti gli altri figli erano sposati fuori.
Fin dal secolo scorso i Bosi erano originari di Anzola, poi si trasferi-
rono a Stiore di Monteveglio. Sono sempre stati affittuari e nel 1903 ri-
tornarono al paese d'origine in via Dei Sora. Il nonno Raffaele, da giovane
aveva militato nelle leghe dei lavoratori ed aveva votato anche lui per il
primo sindaco socialista di Anzola, Goldoni.
I nostri genitori ci dicevano che il nonno, essendo socialista, aveva votato in
tutte le elezioni successive fino a che il fascismo soffocò le amministrazioni
popolari. Ci spiegava che in campagna un'alta percentuale di uomini era analfa-
beta e che anche il numero dei votanti risentiva di tale arretratezza; soleva
dire che l'uomo privo di istruzione ha una certa paura di affrontare un fatto
così importante come il voto. Lui spiegava che il voto ai lavoratori era una
grande conquista Diceva anche che era sbagliato che quel diritto fosse negato
alle donne, non solo perchè erano più numerose degli uomini, ma perchè erano più
sfruttate ed i loro diritti non venivano riconosciuti; infatti nei vecchi
"Capitolati Agrari" le donne non venivano contate come unità lavorative, perciò
erano prive di ogni diritto civile e politico od altro. Nel periodo della
Amministrazione socialista, furono fatte le scuola di S.Maria in Strada, pro-
gettate le "De Amicis" e completate tante opere pubbliche che avevano reso più
agevole la vita dei cittadini.
Il nonno ci raccomandava di tenere sempre presente tutto ciò per capire i
grandi sforzi fatti dall'Amministrazione socialista.
Oliano fu chiamato alle armi nel 1941, in seguito fu trasferito in Africa e
quando l'esercito italiano dovette ritirarsi, lui, fra mille difficoltà, riuscì
a rientrare in Italia e dopo una licenza ripartì alla volta di Vicenza.
Nel frattempo gli avvenimenti bellici volgevano a sfavore dei nazifascisti su
tutti i fronti.
In Italia il 25 luglio 1943 cadde Mussolini. Il re lo fece arrestare e diede
l'incarico al generale Pietro Badoglio di costituire un nuovo governo.
Questi nel suo proclama al popolo italiano dichiarò che la guerra continuava
e proclamò lo stato d'assedio, inoltre dichiarò che erano decadute le leggi che
reggevano la dittatura; da notare, però, che la milizia fascista venne incorpo-
rata nell'esercito e la guerrà continuò, come sopra detto.
Naturalmente fu una grande delusione per noi e per tutto il popolo italiano,
perchè pensavamo che la caduta di Mussolini avrebbe significato la fine della
guerra da lui voluta.
Sarà solo con la firma del'armistizio con gli alleati (Inghilterra,Francia
Unione Sovietica e America) avvenuta l'8 settembre 1943 che, automaticamente
si romperà l'alleanza fra l'Italia e la Germania nazista.
Badoglio impartì ordini all'esercito italiano di passare a vie di fatto con-
tro chiunque si opponesse ai suoi comandi. Però nulla fu fatto perchè l'eserci-
to fosse preparato all'inversione del fronte. Fu preso di sorpresa.
Giovanni Goldoni
(primo sindaco socialista di Anzola)
Sindaco di Anzola dell'Emilia dall'inverno 1905 all'ottobre 1920, era nato il 1° maggio 1870 in una famiglia di coloni della vicina Sacerno.
Autodidatta si avvicinò prestissimo alle nascenti leghe sindacali bracciantili e fu uno dei promotori della prima sezione socialista di Anzola che sostenne la candidatura dell'avvocato Enrico Ferri nelle elezioni politiche dell'anno 1900.
Organizzatore sindacale di coloni e cooperatore locale congiuntamente ad Augusto Pedrini, Umberto Tibaldi, Augusto Malaguti e Alfredo Peli.
Fu fra i fondatori della locale cooperativa di consumo (1903) e ne assunse più volte la presidenza fino alla edificazione della coop. Casa del Popolo che fu inaugurata nel 1910 dall'avv. on. Enrico Ferri e vide il Goldoni rappresentare il comune in qualità di sindaco.
Acquisito il diritto al voto tramite la legge liberale del 1895 che apriva un pò le strette maglie della legge elettorale amministrativa del tempo, partecipò attivamente alle battaglie politiche e sindacali degli anni che vanno dalla fine dell'800 ai primissimi anni del nostro secolo fino al 1902 che lo vide entrare in Consiglio Comunale assieme ai compagni Raffaele Maccaferri, Calisto Bonazzi, Pietro Chiodini e Roberto Bignardi in qualità di gruppo socialista di minoranza.
Giovanni Goldoni intensificò la sua attività politica e sindacale fino alla grande vittoria del 1905 che per la prima volta Anzola si era data una amministrazione socialista.
Il nuovo sindaco sarà appunto Giovanni Goldoni.
Uno degli obiettivi che il sindaco perseguì con tenacia fu la scolarizzazione delle campagne anzolesi portando le scuole nelle frazioni agricole e istituendo corsi elementari serali per adulti accanto ai normali corsi diurni per bambini.
Le prime scuole di campagna furono quelle di S.Maria in Strada e di S.Giacomo del Martignone e, in accordo con il comune di Borgo Panigale si costruì una scuola a Lavino di Mezzo che serviva per tutti e due i comuni.
Goldoni era un vero autodidatta, era un uomo politico capace, durante le battaglie politiche sindacali e leghiste del 1905-1909 era quasi sempre indicato come mediatore sia dalla parte padronale, sia da quella leghista.
Si adoperò ripetutamente per comporre le vertenze sindacali che salvaguardassero gli interessi dei lavoratori in una politica unitaria e dello sviluppo dell'economia del paese.
Nel 1919 quando la lotta di classe si fece più forte conseguendo nuove importanti conquiste come le otto ore giornaliere, l'assistenza e il collocamento diretto dai lavoratori, Goldoni per far funzionare bene questo strumento, cioè il collocamento così importante per una razionale distribuzione della manod'opera bracciantile, riunì i responsabili delle varie organizzazioni di categoria alfine di farle funzionare nell'interesse di tutta l'economia.
Quando nacquero le prime squadre fasciste Goldoni fu il primo ad essere preso di mira dai fascisti per la sua ascendenza fra tutta la popolazione che ne conosceva la politica giusta ed imparziale da lui fatta a favore di tutti gli strati produttivi.
Il fascismo non gli perdonò di essere stato un sindaco giusto, capace e popolare e quando nel 1920 gli squadristi scacciarono con la violenza le amministrazioni socialiste, perseguitando i dirigenti più prestigiosi, Goldoni, che era uno di questi, fu anch'egli ripetutamente colpito fino a portarlo ad una prematura morte, avvenuta il 17 giugno 1924.
Malgrado la repressione del regime, il funerale di Goldoni si trasformò in una grande manifestazione antifascista.
Il paese vi partecipò pressochè tutto unito e compatto.
L'amministrazione fascista accusò il colpo tanto che non potette sottrarsi al dovere di portarvi il gonfalone del comune.
Nella nostra ricerca abbiamo constatato che la persona del Goldoni è ancora viva nel cuore dei cittadini di Anzola.
Tutte le famiglie da noi interpellate hanno ricordato le sue opere che portarono un grande beneficio a tutta la popolazione.
Duilio Carpanelli
Ricordo di Rosanna Gambini
"Dopo la caduta di Mussolini, ad Anzola c'era molta aspettativa fra la popolazione. Arrivavano a casa quelli che Mussolini aveva incarcerato perché contrari alla politica guerrafondaia fascista.
C'era chi li chiamava anarchici, chi confinati, chi comunisti o socialisti, insomma erano gli antifascisti che da anni e anni avevano lottato contro il regime fascista e non si erano mai piegati né con le percosse, né con il confino, né con la galera, fino alla sua caduta.
Ad Anzola l'attesa era per Carpanelli e quando arrivò il paese lo festeggiò, c'era la fila per salutarlo.
Durante la prigionia Duilio perse la madre, per lui fu un gran dolore ed al suo ritorno spesso ripeteva: "Almeno fosse campata quel tanto per vedermi libero, che soddisfazione sarebbe stata per tutti e tre".Invece a casa trovò soltanto il padre.
La mia famiglia era amica della sua, fin da piccolina eravamo vicini di casa nella borgata Olmo di Anzola. In seguito noi traslocammo nei pressi della via Foiano (ora via Baiesi), pure lui venne dall'Olmo ed abitavamo poco distanti. Quando mi vide, lui che, si fa per dire, mi aveva visto nascere, si meravigliò trovandomi già signorina.
Duilio si mise subito al lavoro per organizzare i gruppi della Resistenza assieme a Buldini, Dante Sarti, Turrini, Cappelli, Tagliavini e alla Corina.
Spesso veniva a casa mia, parlava della vita carceraria e di quella da confinato.
Io e i miei genitori non ci stancavamo mai di ascoltarlo.
Quest'uomo, che aveva tredici anni più di me, mi affascinava con i suoi racconti. Un giorno gli chiesi che cosa significava essere comunisti, ricordo che rispose: "Essere comunisti significa in primo luogo lottare per la libertà, l'uomo deve essere libero e nella libertà creare un mondo più giusto", e poi continuò: "Vedi Rosanna, eravamo già su una buona strada qui ad Anzola, abbiamo avuto fin dall'inizio del secolo un sindaco socialista, Goldoni, eletto dal popolo. Questi aveva creato assieme ai lavoratori le leghe e le cooperative.
Il fascismo ha spazzato via tutto ciò e siccome noi giovani lottavamo contro questi soprusi, ci ha incarcerati, picchiati, confinati.
Anche se per qualcuno poteva sembrare una illusione la nostra resistenza, quello che dicevamo all'epoca si è relizzato.
Ora tocca a noi cacciare fuori dall'Italia i tedeschi".
Molte volte faceva riunioni con ragazzi e ragazze, piccoli gruppetti di quattro o cinque.
Ricordo la Corina, la Giulia, la Isolina, l'Argentina e altre.
Duilio non era capace di parlare a grandi masse, perché era timido, ma era un ragionatore convinto, molto efficace nelle riunioni ed era uno stimolo per i giovani.
A volte i ragazzi chiedevano a Duilio di parlare della Russia, di Lenin e di Stalin, perché allora la Russia era l'unico paese socialista e per gli antifascisti era un punto di riferimento.
Duilio descriveva questo popolo che aveva saputo abbattere lo Zar: un popolo che aveva preso la terra ai nobili, ai latifondisti e data ai contadini da gestire attraverso le loro organizzazioni. Le fabbriche, le banche e tutti gli apparati dello Stato erano nelle mani dei Soviet che non erano che il governo del popolo.
Questi racconti mettevano entusiasmo in tutte noi ragazze, io poi ammiravo Duilio tanto che nacque tra noi una reciproca simpatia. Non mi diceva niente del suo lavoro clandestino, sapevo che non dormiva a casa, ed io mi recavo dal padre per fare i lavori.
Un giorno portai bombe a mano dentro a una sporta piena di granoturco, quando i miei genitori lo seppero, mi proibirono di muovermi di casa.
Il 18 ottobre del '44 mi trovavo in camera con mia madre ammalata, arrivò la Corina, fra le lacrime mi consegnò il cappello "briliperi" di Duilio e disse: "I tedeschi l'hanno ucciso". Non ricordo né cosa dissi, né cosa feci. Ripresami, mi recai dal padre. Povero vecchio quanta pena mi fece! Disse abbracciandomi: "Ora mi rimani solo tu".
In quel periodo Duilio dormiva a casa dai Gherardi, contadini in località Madonna dei Prati. Duilio venne ucciso per la strada e seppellito in un fosso.
Per smuoverlo ci voleva l'ordine delle autorità tedesche.
Mi recai al comando, dissi loro che ero una lontana parente. Mi diedero l'autorizzazione. Il falegname Landi fece la bara.
Pioveva da due giorni; appena si calmò, con Nella e una sua nipote (oggi deceduta) caricammo la bara su un carretto ed andammo dov'era seppellito, a circa tre, quattro chilometri da Anzola.
Dopo averlo pulito lo adagiammo nella bara, solo allora mi accorsi che aveva un foro alla nuca come se lo avessero colpito a tradimento.
La Nella teneva le stanghe mentre io spingevo da dietro, facevamo fatica in quanto ci piantavamo con le ruote nel fango.
Intanto pensavo a tutti i sogni, ai progetti, alle speranze, alla fiducia che la vittoria sarebbe stata sicuramente nostra.
Alla promessa che ci aveva fatto appena la guerra fosse finita, diceva: "Voglio portare tutte le staffette di Anzola all'isola dove sono stato confinato". Poi aggiungeva: "Vedrete come vi divertirete!".
Ma ora era lì, chiuso nella bara, sembrava dire: "Un lungo cammino l'abbiamo percorso insieme, ora tocca a voi arrivare in cima e sono sicuro ci riuscirete".
Man mano che passavamo vicino a casolari o gruppetti di case con il nostro triste carico, le tendine delle finestre si muovevano e dietro ad esse c'era una donna che piangeva.
Dopo il grande rastrellamento del 5 dicembre, i fascisti e le S.S. tedesche cominciarono ad arrestare le partigiane.
I miei genitori ritennero più prudente allontanarmi da casa.
Mi ospitò fino alla liberazione mio zio ferroviere che era sfollato a Palazzo Albergati, nei pressi di Ponte Samoggia.
Dopo la liberazione ripresi il mio lavoro di orlatrice.
La sera, finito il mio lavoro, accudivo e facevo i lavori di casa al vecchio Carpanelli che viveva solo, l'ho assistito fino alla sua morte. Quando mi sposai, la moglie del fratello volle darmi la dote di Duilio, che aveva conservato."
A proposito dell'attività svolta dal compagno Duilio Carpanelli nell'organizzazione clandestina, ritengo utile riportare le note di un suo compagno di lotta: Linceo Graziosi.
Era il 5 agosto, una domenica, a Monte Budello (comune di Monteveglio) ebbe luogo il Congresso provinciale della F.G.C.I. (Federazione Giovanile Comunista Italiana), il quarto.
Le cellule di Anzola inviarono tre delegati: i compagni Bruno Turrini, Marino Ruggeri e Duilio Carpanelli.
Dopo il Congresso, che fu un successo, allo scopo di coordinare meglio il lavoro che stava rapidamente sviluppandosi, fu costituito il Comitato di settore che comprendeva la zona ovest di Bologna, cioè: il comune di Borgo Panigale (allora faceva comune), Anzola, Calderara, Castelfranco che in quel tempo era incluso nella provincia di Bologna, S.Giovanni in Persiceto, S.Agata, Crevalcore e Sala Bolognese.
Per la serietà dimostrata e l'impegno con cui svolgevano il lavoro, i compagni Turrini, Ruggeri e Carpanelli furono inclusi nel Comitato Direttivo di settore.
Il gruppo delle cellule della FGCI di Anzola diretto dai suddetti compagni fu molto attivo nel reclutamento di giovani nella FGCI e nella preparazione della grande manifestazione del 7 novembre, anniversario della Rivoluzione sovietica.
A cinquantacinque anni di distanza c'è da gioire anche oggi, pensando allo sgomento dei gerarchi fascisti, quando nel centro del paese e nelle frazioni, la mattina del 7 novembre del 1930 trovarono centinaia di volantini dei giovani comunisti che inneggiavano alla Rivoluzione sovietica e alla libertà. Decine di falce e martello stampigliate nei punti più visibili e una "provocante" bandiera rossa (così la definì il segretario del fascio) che sventolava agganciata ai fili della corrente elettrica sulla via Emilia.
Purtroppo in quella circostanza l'O.V.R.A. (Organizzazione Volontaria Repressione Antifascista), la polizia politica del regime, riuscì a mettere le mani su buona parte della FGCI. Anche il compagno Carpanelli fu arrestato e condannato dal Tribunale speciale a due anni di carcere, che scontò con il sottoscritto nella casa penale "Santa Teresa" a Firenze.
Durante l'anno che trascorremmo in carcere fummo messi nello stesso gruppo di studio il cui responsabile - insegnante era il compagno Ernesto Zanni di Avezzano che era un funzionario del P.C.I. e l'incarico di segretario era svolto dal compagno Ennio Gniudi del Centro Interno e membro dell'Ufficio politico.
Uscimmo assieme l'11 novembre del 1932 a seguito dell'amnistia concessa dal regime facista in occasione del decennale.
Ritornato in libertà, Carpanelli riprese con slancio l'attività cospirativa.
Ho riavuto contatti di lavoro politico con il compagno Duilio, ma per breve tempo. Dal 1933/34 il Partito Comunista Italiano concentrò gran parte della sua attività nei posti di lavoro, specie nelle grandi fabbriche per cui la mia attività si svolse da questo momento prevalentemente in fabbrica (dal 1934 alla Ducati). Nel gennaio del 1936 Carpanelli fu riarrestato ed inviato al confine per 5 anni.
Dopo l'8 settembre 1943 abbiamo ancora svolto attività assieme, specie nel prendere i primi contatti con i gruppi antifascisti di S.Agata, Crevalcore ecc.., ma per breve tempo in quanto fui chiamato dal Partito a svolgere attività altrove.
Al mio ritorno a Bologna, dopo la liberazione, ebbi occasione di vedere subito nella sede provinciale della federazione Comunista l'allora sindaco di Anzola, compagno Buldini e da lui appresi la notizia della morte del compagno Duilio.
Odone Baiesi
(caduto nella battaglia di Porta Lame)
Testimonianza della sorella Amalia
Parlo con la sorella Amalia che all'epoca della guerra aveva 15 anni. "Abitavamo al Palazzo dell'Opera Pia chiamato dai paesani "Vaticano" perché era proprietà della Curia.
Era uno stabile molto grande, abitato da decine di famiglie di braccianti poveri.
Anche i nostri genitori erano braccianti, ed eravamo sette figli. Si può dire che nessuno di noi abbia conosciuto la spensieratezza che è caratteristica dei giovani, la nostra è stata un'infanzia tribolata e sofferta. Alla nostra famiglia mancvano i mezzi necessari per vivere.
Avevamo ambedue i genitori ammalati e di conseguenza una gran miseria.
La sorella più grande era dovuta andare a servizio lontano da casa; Odone il secondogenito, ancora un ragazzo, iniziò a lavorare da un fabbro del paese che si chiamava Lambertini; poi c'ero io e dietro di me altri quattro fratellini.
Ricordo la mamma stanca e sbiadita, diceva che non aveva fame per lasciarci il pane.
Odone, seppur ragazzo, sentì tutto il peso della famiglia , non si rassegnò a fare il dipendente di un artigiano, perché il salario a quei tempi era molto basso. Entrò allo stabilimento Minganti di Bologna e diventò un tornitore specializzato.
Nel 1943, la mamma era ricoverata nella clinica Sant'Orsola a Bologna e nello stesso periodo una sorellina era ricoverata nell'ospedale di S.Giovanni in Persiceto. Per parecchio tempo feci la spola fra questi due luoghi. Quello stesso anno la mamma morì. Dopo la sua morte era Odone che trasmetteva ai fratelli tutto l'amore e l'affetto che era venuto a mancare.
Per guadagnare di più faceva il turno di notte. La mattina arrivava a casa dal lavoro stanco, dormiva solo due o tre ore, il resto della giornata lo passava a casa dai contadini a far "ciapini" (aggiustava attrezzi agricoli) ed era compensato con viveri.
Per le famiglie povere, quelle che sgobbavano dall'alba al tramonto, era di sera che si trovavano tutti riuniti, grandi e piccoli e la cena, seppur magra, rappresentava il più bel momento della giornata.
Noi, al contrario, aspettavamo nostro fratello sulla soglia di casa ed appena lo vedevamo spuntare gli correvamo incontro perché sapevamo che portava sempre a casa qualcosa da mangiare.
Possiamo dire che ci fece da padre e da madre, era giovane, sensibile e responsabile.
Ho sempre pensato - continua l'Amalia - che la fabbrica abbia contribuito, certamente, a fare di lui un uomo maturo, e fu in fabbrica che imparò a lottare unitamente ai suoi compagni per migliorare le proprie condizioni, e quando nel 1944 iniziò al paese la lotta partigiana vi entrò con entusiasmo e passione.
Un giorno i fascisti vennero a cercarlo, buttarono a soqquadro tutta la casa, ma Odone riuscì a sottrarsi all' arresto. Da quel momento iniziò per lui una vita clandestina come per tutti i partigiani.
Ho saputo soltanto dopo la liberazione, che quando il Comando partigiano di Bologna diede disposizioni che anche il distaccamento di Anzola ne facesse parte assieme a Boccaccio.
Fu nella battaglia del 7 novembre 1944 (Porta Lame) che mio fratello cadde".
Il marito dell'Amalia, che è presente, è stato partigiano nella Stella Rossa e poi nel Veneto, si assenta, rientra dopo qualche minuto e ci mostra con commozione la decorazione che il comando della Piazza di Bologna ha riconosciuto a Odone conferendogli la CROCE AL VALOR MILITARE in data 30 luglio 1977.
L'Amalia guarda la fotografia del fratello, poi la decorazione e visibilmente emozionata dice: "Il riconoscimento del merito a Odone ci ha confermato che nella lotta per la libertà ha messo tutto il cuore e la passione che nella sua breve vita aveva manifestato verso i fratelli minori."
Ricordi della staffetta Dina Gallerani
"E' difficile per me descrivere il 1944. La Resistenza è parte della mia vita.
I sentimenti sono vivi, i ricordi un po' lontani, ma io li richiamo per onorare i compagni morti e perchè i vivi sappiano che non li ho dimenticati.
La gente pensa come cosa naturale alle conquiste che abbiamo fatto dopo la Liberazione, ma tutto l'abbiamo ottenuto con lotte e sacrifici.
Come entrai a far parte della Resistenza?
Fui avvicinata dalla Silvana Guazzaloca, mia amica. Mi chiese un po' di soldi per acquistare viveri per persone che non volevano più fare i militari.
Capii subito, perché dopo l'8 settembre diversi miei coetanei erano nascosti e dicevano che la guerra l'avrebbero fatta solo contro i tedeschi e contro i repubblichini.
Diedi alla Silvana poche lire, perché anche noi non ne avevamo. Il giorno dopo mi invitò a partecipare ad una riunione clandestina nel campo di Panzarini, mio grande amico allora e anche ora.
A quella riunione trovai la Corina, la Iole Vignoli, la Silvanotta, la Vera, la Iella e tante altre. Sedemmo in terra a cerchio, i compagni Vittorio Bolognini e Ganascia stavano al centro. Ci dissero che avremmo cominciato una lotta contro i fascisti e i tedeschi e che non sarebbe stato uno scherzo.
Il movimento clandestino aveva bisogno di serietà, di onestà, di coraggio, se ci sentivamo di impegnarci, altrimenti zitte e tutte a casa.
Accettai, il resto delle compagne erano già inquadrate, si fa per dire.
La mattina dopo venne la Vera a casa mia, dovevo portare Vittorio ad un appuntamento, lui non era pratico della zona, anch'io non conoscevo la strada e mi sbagliai, dopo però ci rifacemmo e tutto andò bene; lui andò in base ed io ritornai a casa. Mia madre aveva già intuito, le mamme hanno un sesto senso, mi aspettava con ansia. Solo che ritardassi qualche minuto stava già in pensiero. Mi diceva: "Fa pure la partigiana tutto il giorno, ma la sera voglio vederti rientrare a casa".
In quei giorni eravamo tutte indaffarate per la manifestazione che stavamo preparando contro il Podestà del paese. Il Municipio si era trasferito nella borgata Immodena per via dei bombardamenti ed era colà che dovevamo convogliare le donne che avrebbero protestato contro i soprusi che il Podestà esercitava sulla popolazione affamata.
Avevamo fatto propaganda con piccole riunioni nelle borgate, con manifestanti dei gruppi di difesa della donna, con scritte sul muro del Comune, applicato le direttive del C.U.M.E.R., ma quello che più diede impulso alla protesta, era ciò che sentivamo dentro.
Esse covavano in seno tanta rabbia per ciò che il fascismo aveva fatto allorché andò al potere con la forza. Il fascismo scacciò con violenza il sindaco socialista Goldoni per mettere al suo posto un gerarca che calpestò, che incendiò, che spazzò via come una furia devastatrice tutto quello che il popolo anzolese aveva costruito in quasi vent'anni di governo socialista. Dal 1906 al 1924.
Anche se erano passati vent'anni di fascismo da questi avvenimenti, le donne sentivano ben vive e non avevano mai dimenticato le umiliazioni che avevano subito con l'olio di ricino e il nero fumo e non intendevano più essere calpestate, umiliate; sembrava, quel giorno, di andare alla riscossa per riavere ciò che ci apparteneva.
Le donne venute da tutte le borgate entrarono con violenza negli uffici comunali urlando tutta la loro indignazione verso il primo cittadino che, invece di tutelare i suoi concittadini, prendeva il grano dei nostri contadini per darlo ai tedeschi e così facendo assecondava il nemico, prolungando la guerra. Il Podestà, annusando aria pesante e di minaccia, invece di rimanere al suo posto, dimostrò vigliaccheria e non si fece trovare, lasciando ai suoi subalterni di sbrigare la cosa.
Il segretario, davanti ad una massa di donne così inviperite che gridavano: "Vogliamo pane per i nostri figli", cercava di temporeggiare e balbettava, non si sentiva di prendere una decisione senza l'ordine del suo superiore. Allora si fecero avanti i partigiani Bolognini e "Tarzan" (Melega) e solo allora promise che avrebbe ritirato picchetti repubblichini dalle aie contadine durante la battitura.
La manifestazione ebbe il suo effetto positivo fra la popolazione. Il nostro movimento acquistava sempre più prestigio e fiducia nella lotta. La eco della manifestazione sconfinò dal paese per la portata politica che assunse in quel momento ed io ero fiera, perché avevo dato anch'io il mio modesto contributo.
Passai staffetta. Tutto il giorno ero sulla bicicletta, andavo da una base all'altra, era un lavoro faticoso e pieno di incognite. Portavo una sporta con il doppio fondo e lì collocavo armi o esplosivo, sopra la riempivo di sticchi con in mezzo qualche uovo, mentre la stampa la tenevo sotto la canottiera, vicino alla pancia.
Quando mi trovavo con le altre staffette, parlavamo di tante cose, ma ognuna aveva i suoi segreti professionali che non avrebbe detto a nessuno, ed anch'io applicavo alla lettera le raccomandazioni dei miei superiori.
Una domenica mattina, in settembre, ci fu una grande riunione nel podere dei Lorenzini, vicino al fiume Ghironda. Quando arrivai dissi fra me: "Ma questo è un comizio vero e proprio", anche se era la prima volta che sentivo un discorso con tanta gente che ascoltava un oratore del popolo.
C'erano contadini, operai, operaie, braccianti, perfino qualche "zdaura". Parlò il compagno Nerio Neretti. Il comizio era protetto a debita distanza dai partigiani armati. Questo diede grande fiducia e coraggio ai presenti.
Ricordo che quando passavo vicino a dei casolari e non mi fermavo, perché ero diretta in altre basi, sentivo dei fischi e dei tirini, erano i partigiani che stavano fra il fieno o fra la canapa che mi salutavano.
Una mattina dovevo andare a S.Giacomo del Martignone, arrivata nei pressi, vidi la fornaia che mi veniva incontro e mi disse di andarmene, perché i tedeschi avevano ammazzato un uomo, mi indicò il punto sulla Persicetana.
Ritornai indietro e intanto mi chiedevo chi poteva essere. Feci cento passi circa e per non essere vista feci a ritroso la strada in scarpata e arrivai sulla Persicetana. Mi avvicinai, l'uomo era coperto con un telo, solo una mano, una bellissima mano dalle dita lunghe e affusolate era scoperta. Non potevo sbagliarmi, quella era la mano di Nanetti. Sul corpo, gli assassini, avevano messo un cartello con scritto in tedesco "BANDITO".
Piansi fino a casa. Raccontai tutto a mia madre e piangemmo assieme la perdita di un grande, valoroso combattente. Per il movimento di liberazione fu una grave perdita, per me era come avessimo perso la guerra.
Il compagno Buldini era un uomo onesto e molto intelligente, capì come la perdita del compagno Nanetti avesse scosso un po' tutti. Fece una riunione, disse che il cammino per ottenere la libertà era una strada lunga, fatta di pericoli, di sacrifici, purtroppo di perdite che via via avremmo colmato con altri giovani che avrebbero impugnato le armi per scacciare tedeschi e fascisti fino alla vittoria.
A metà ottobre fui chiamata dal compagno Pacetti (da un po' tenevo il collegamento con Bologna) e mi disse che avrei assunto un nuovo lavoro: dovevo portare gappisti dentro la base dell'ospedale Maggiore di Bologna e che si preparava la grande insurrezione di Bologna che doveva avvenire entro l'anno.
Questo nuovo compito era per me di estrema importanza. Dovevo sempre assicurarmi di non essere osservata, o seguita (portare l'avversario nella più importante base di Bologna, seppur inconsapevolmente, sarebbe stato per me un delitto). Non nascondevo che il mio lavoro mi inorgogliva anche se era delicatissimo, perché testimoniava la fiducia che i compagni ponevano in me, e per me era la cosa più bella.
Mi è difficile descrivere il dolore che provai la mattina del 7 novembre, quando arrivai nei pressi dell'ospedale Maggiore in cui dovevo giornalmente recarmi, e sentii degli spari.
In quel momento passò una signora che mi invitò ad allontanarmi in fretta perché c'era grande pericolo. Giudicai che sarebbe stata follia voler entrare ugualmente nella base. Pensai sarebbe stato meglio rientrare subito in paese ed avvisare il nostro Commissario, compagno Buldini che era al corrente di tutto (a dimostrazione che la nostra organizzazione era efficiente anche nei momenti brutti). Buldini con tutta calma, come solitamente faceva, mi diede disposizioni, assieme alla Iella e ad altre che ci fossimo immediatamente date da fare per trovare in breve tempo basi il più possibile sicure per il nostro distaccamento che ad un dato momento si sarebbe sganciato e quindi rientrato.
Dopo il rientro dei nostri compagni dale basi provvisorie, dopo la battaglia di Porta Lame, ad un mese circa da questo avvenimento, al paese fecero un rastrellamento che sconvolse tutta la nostra organizzazione. Una spia aveva fece arrestare un gran numero di nostri compagni che non vedemmo più ritornare. Poi toccò alle donne.
Dopo i primi arresti delle gappiste, anch'io fui ricercata dai tedeschi e dai fascisti. Il compagno Pacetti, che anche in questa circostanza si dimostrò molto accorto e premuroso, mi diede la chiave di un appartamento nei pressi della Ford.
Mi ci recai subito, ma l'appartamento non era attrezzato per una lunga permanenza, non c'era di che scaldarsi ed era privo di vettovagliamento. Nemmeno io avevo provveduto a queste cose, in quanto mi ero dovuta allontanare in fretta dal paese.
Stabilito che era difficile permanere in quel posto, decisi di rientrare in paese. Mia madre mi fece un nascondiglio. Quando arrivarono i tedeschi e i fascisti e circondarono la casa, non trovandomi, picchiarono mia madre, visto che non parlava la schiaffeggiarono, ma ella negò sempre con fermezza fintanto che si convinsero che non ero in casa. Invece ero lì poco distante e sentivo tutto. E' proprio vero, solo una madre può difendere il proprio figlio con tanto accanimento".
Base Reggiani Riccardo
(morto a Mauthausen - Zguzen)
Testimonianza del figlio Mario
Ora il figlio Mario abita a Bologna, ci riceve assieme alla moglie Paolina e subito inizia il suo racconto.
"Durante la guerra abitavamo nel comune di Anzola, eravamo una famiglia di mezzadri, il fondo che contava 30 tornature era di proprietà del generale Radice ed era ubicato nei pressi della Via di Mezzo; i nostri campi confinavano con quelli dei Pulega.
Capo famiglia era mio padre Riccardo. Eravamo in tre figli: Gaetano, Gino ed io; mia madre Maria e mia moglie Paolina completavano la famiglia. Avevamo anche una donna di servizio, la Pina Tarozzi".
Chiedo se per il passato erano stati degli antifascisti.
"Mio padre - racconta Mario- era antifascista, ci ha allevato con i suoi principi che erano di giustizia e di libertà. Quando il daziere del paese, che ogni tanto veniva a casa nostra, chiedeva a mio padre di iscriversi al fascio, lui rifiutava con garbo, ma deciso. Il daziere non replicava perché sapeva che sarebbero state parole spese al vento.
Tutta la nostra ramificazione era gente che di Mussolini non ne voleva sapere, non aveva mai dimenticato i soprusi, le percosse e i delitti. Anche un nostro parente - continua Mario - morì nelle prigioni fasciste durante la dittatura, si chiamava Giuseppe.
Mai la nostra famiglia avrebbe aderito al regime che opprimeva il popolo!
Questi erano i motivi fondamentali per cui nostro padre ci insegnava ad essere contro la violenza.
Da parte nostra abbiamo cercato di approfondire le cause del decesso di Giuseppe e ci siamo recati dalla moglie di un fratello, la Teresa Tosi, la quale ci ha informati che oltre a Giuseppe fu arrestato anche il fratello Giorgio e per sfuggire alla cattura, una sorella ed un altro fratello furono costretti ad espatriare in Francia.
Dalle nostre ricerche risulta che Giorgio faceva il barbiere ed era segretario della cellula comunista clandestina in località "Scala" e che il suo negozio era anche recapito per il comitato di settore.
Dopo l'aggressione fascista alla giovane Repubblica spagnola, avvenuta il 18 luglio del 1936, il movimento clandestino in Italia prese un grande impulso, anche da Bologna partirono molti volontari. Due di loro morirono: Adelmo Arbizzani e Alessandro Manzoni.
I Reggiani furono protagonisti di questa ripresa della attività antifascista. Le autorità fasciste intensificarono la vigilanza perché sentivano che la Resistenza spagnola, così validamente aiutata da tutti gli esuli che avevano formato una brigata internazionale", suscitava entusiasmo ed ammirazione.
Mussolini, nella primavera del 1937, pubblicava sul "Popolo" (giornale ufficiale del partito fascista) un articolo intitolato"Guadalcjara" (città spagnola) dove ammetteva la sconfitta della milizia fascista ad opera del battaglione internazionale.
Quella vittoria diede grande fiducia agli antifascisti. Quando radio Barcellona lanciò l'appello al popolo italiano per raccogliere fondi per aiutare i garibaldini che combattevano contro i fascisti, Bologna rispose tempestivamente con somme consistenti.
I Reggiani, anche nella clandestinità si distinsero come attivisti e capaci organizzatori.
Purtroppo, come tanti altri nostri compagni, furono arrestati e condannati dal Tribunale Speciale. Giuseppe con sentenza n. 67 del 14/10/37 ad anni 4 per attività comunista, mentre Giorgio, arrestato nel 1938 sarà condannato a 5 anni con sentenza n. 86 del 22/7/1939.
Giuseppe era un ragazzo riflessivo, molto attaccato alle sue idee. Arrivò al carcere di Civitavecchia che era già malandato di salute per i maltrattamenti infertigli dalla polizia, fu ricoverato nell'ospedale del penitenziario.
In carcere c'era anche il prof. Antonio Pesenti, una figura intellettualmente di spicco, conosciuto anche fuori d'Italia.
(Pesenti era stato invitato da esperti inglesi in campo finanziario perché si era rivelato uno dei giovai più preparati d'Italia in questo settore. Si recò a Londra anche per studiare il loro sistema economico.
Al ritorno, i socialisti italiani, rifugiati in Belgio, gli fecero fare una conferenza sulla situazione finanziaria italiana.
Rientrato in Italia, alla frontiera, fu arrestato e denunciato al Tribunale Speciale che lo condannò per propaganda anti italiana all'estero, alla pena di 24 anni di carcere).
Pur essendo anch'egli malandato di salute, Pesenti si dedicò con impegno allo studio del movimento operaio italiano, per cui fra Pesenti ed il nucleo del collettivo comunista di Civitavecchia si stabilirono presto dei rapporti molto stretti di stima e di amicizia.
Anche fra Pesenti e Giuseppe i rapporti divennero di fraterna solidarietà.
Pesenti riferiva ripetutamente al collettivo che Giuseppe era in condizioni gravi, che difficilmente l'avrebbe scampata, ma che ciò non aveva per nulla colpito il suo forte spirito di lotta e il grande desiderio di apprendere.
Riferiva con angoscia che il Partito Comunista stava perdendo un giovane intelligente ed intraprendente, con una fede radicata che nulla avrebbe scosso.
Tale giudizio di Pesenti, Giuseppe lo confermò nell'ultimo suo scritto che inviò ai compagni comunisti del penitenziario.
Pochissimo tempo dopo Giuseppe morì.
Attraverso il difficile canale interno, quel biglietto arrivò al collettivo, nel camerone di Graziosi al 3°; responsabile era Giacomo Pellegrini (uno dei più prestigiosi dirigenti comunisti).
E' noto che la vita collettiva doveva svolgersi nella semillegalità anche in carcere, non era possibile riunirsi per alcun motivo e la comunicazione di tale perdita fu data ai compagni durante il pranzo, perché era l'unico momento in cui le guardie non erano in movimento e la vigilanza era allentata.
La notizia della morte di Reggiani scosse tutti i compagni. Se la perdita di un combattente è sempre dolorosa, quando ciò avviene in carcere il dolore è ancora maggiore. Reggiani morì il 4 marzo 1940.
La Paolina, durante la guerra, era una sposina molto giovane e ci racconta come la famiglia di Riccardo abbia aderito alla Resistenza.
"Dopo l'8 settembre fu mio suocero, d'accordo con i figli, a prendere i primi contatti con Buldini, il barbiere. Lui che conosceva i sentimenti della nostra famiglia, quando venne a parlare era sicuro del nostro contributo incondizionato alla Resistenza. Infatti Riccardo faceva parte del Comitato di Liberazione del paese assieme a Raffaele Buldini, Carpanelli, Panzarini e altri.
Fummo fra le prime famiglie ad ospitare ragazzi renitenti alla leva. Nel campo fecero un rifugio, andavano e venivano, noi donne facevamo loro da mangiare, a volte erano in molti, a volte pochi; a dir la verità non siamo mai stati senza "ospiti" fino al grande rastrellamento del 5 dicembre '44.
Buldini dormì qualche volta da noi quando al paese tirava aria pesante.
Nerio Neretti veniva a casa nostra quando aveva bisogno di quiete per coordinare il suo lavoro e per riposare un po'. Mettevamo a sua disposizione una camera e la vigilanza per la sua sicurezza la facevamo noi donne. Arrivava anche Bolognini che tanta fiducia ed entusiasmo ispirava nei giovani.
Anche i più anziani lo stimavano un ragazzo intrapredente e capace.
Per noi donne, che facevamo un lavoro di assistenza come il mangiare e che non partecipavamo alle azioni partigiane, l'esuberanza di Bolognini poteva a volte sembrare un po' avventata, ma bisognava riconoscere che data la mansione di direzione del movimento, anche la sua vivacità era in carattere con la guerra partigiana.
Noi donne eravamo sempre impegnate per garantire la sicurezza ai partigiani, perché anche una piccola imprudenza poteva provocare dei danni. Un esempio: ci fu di sorpresa un rastrellamento in zona, i nazifascisti arrivarono anche da noi. I partigiani che erano nella stalla furono svelti a sottrarsi senza essere individuati. Quando ormai si erano allontanati guardai, come ero solita fare, che non ci fosse nulla di compromettente e mi accorsi che avevano lasciato nella stalla una borsa contenente delle munizioni. Con il cuore in gola la presi e la buttai nel letamaio e la coprii di sterco. I nazifascisti non trovarono niente, ma la cosa mi lasciò in ansia, perché in realtà era stato un incidente che avrebbe potuto avere gravissime conseguenze per tutta la famiglia.
Nella nostra base capitava il Lambertini, e fu per noi doloroso quando venimmo a conoscenza del male che aveva fatto a tutto il movimento la sua azione di delatore.
Il giorno del grande rastrellamento tutti gli uomini si erano nascosti in cantina. Di quel nascondiglio nessuno era a conoscenza all'infuori della famiglia e non venne scoperto".
"Mio padre - racconta Mario - quel giorno era andato dai suoi fratelli che abitavano poco distante e stando là vide un camion dei tedeschi nei pressi della nostra cascina, si diresse immediatamente verso casa per vedere cosa stava succedendo, appena arrivato lo arrestarono.
Lo portarono alle carceri di San Giovanni in Persiceto, fu poi inviato in quelle di Bologna, poi nel campo di concentramento di Mauthausen.
Dopo qualche giorno i nazifascisti arrivarono con i camion e ci portarono via tutto il bestiame, anche quello da cortile, non ci lasciarono niente.
Fu poi motivo di vera preoccupazione per tutta la famiglia quando in casa si installò un comando tedesco; avevamo paura che arrivasse qualcuno della Resistenza, ignaro che la casa pullulava di tedeschi. Intanto i rastrellamenti continuavano ed i collegamenti con la Resistenza non esistevano più.
A circa metà febbraio - continua Mario - i tedeschi se ne andarono ed io presi il posto di mio padre nella Resistenza. Cominciai fra mille difficoltà a riallacciare i collegamenti per poter portare avanti la lotta che mio padre aveva intrapreso con tanto entusiasmo e senso di responsabilità.
Arrivammo alla liberazione tanto sofferta, anche noi ci preparammo per ricevere nostro padre.
Come tutti, correvamo appena sapevamo che qualcuno era tornato dai campi di concentramento.
Finalmente arrivò un superstite che abitava in un paesino della Bassa bolognese (non ricordo il nome e ne sono dispiaciuto); andammo da lui.
Ci informò che nostro padre a metà marzo 1945 era ancora in vita, ma in pessime condizioni di salute, tanto da avere il timore di non farcela, e raccomandò all'amico di informare i figli che prima del suo arresto, (prevedendo che la famiglia avrebbe passato dei brutti momenti), aveva seppellito due bidoncini di grasso di maiale.
Il compagno di prigionia ci indicò il filare e quelli erano gli alberi della piantata che nascondevano il prezioso alimento.
Povero papà - conclude Mario commosso - anche in quell'inferno da cui non tornerà, il pensiero e le preoccupazioni furono per la sua famiglia".
Claudio Calanchi
(morto a Mauthausen-Zgusen)
Testimonianza del fratello Ugo
"La nostra famiglia era originaria di Calcara, comune di Crespellano. Calcara era una frazione rossa, combattiva. Nostro padre, quando fecero la Casa del Popolo, nel primo decennio del secolo, fu tra quelli che diedero il loro contributo e ci spiegava il perché.
Ricordava che i primi organizzatori delle lotte dei lavoratori, per la loro attività, dovevano riunirsi nelle osterie, in case private, e spesso nelle stalle alla sera dopo il lavoro. Chi teneva i libri per la loro semplice contabilità, li conservava in casa. In tal modo era difficile fare riunioni numerose senza appositi locali.
Ci diceva che le Case del Popolo che erano state create con il sacrificio dei lavoratori, assunsero una grande importanza per lo sviluppo e il consolidamento delle organizzazioni operaie, infatti davano la possibilità di fare riunioni numerose, ospitavano sindacati, partiti dei lavoratori, uffici delle cooperative, leghe, clubs, ecc... e ben presto divennero efficaci centri di lotta.
Le Case del Popolo erano odiate dagli agrari, perché là le leghe contadine discutevano sul modo di impostare le lotte per conquistare migliori condizioni di vita.
Ecco perché furono le prime ad essere prese d'assalto dalle squadracce antifasciste e molte furono bruciate.
Si spiega perciò, come a libertà conquistata, nel 1945, la ricostruzione delle Case del Popolo sia stata uno dei primi impegni dell'Italia democratica e, ancora una volta, sono state costruite con grandi sacrifici, ma, con grande slancio dai lavoratori.
Ci stabilimmo definitivamente ad Anzola dell'Emilia nel 1932. Eravamo affittuari e lavoravamo un fondo di 93 tornature, di proprietà dell'Opera Pia.
La famiglia era composta da nonno Gaetano, vedovo; mio padre Paolo; la mamma Teresa e dai tre figli: Guido, Paolo ed io. C'erano anche la zia Clorinda e lo zio Pietro.
Quando cominciarono i bombardamenti sulla città, parenti e conoscenti sfollarono a casa nostra.
Distante una cinquantina di metri circa dalla nostra cascina, c'era il palazzo dell'Opera Pia. Era una casa grande dove alloggiavano una quindicina di famiglie povere, era di proprietà della Curia e la gente lo chiamava Vaticano.
Durante la guerra le famiglie del Vaticano ospitarono intere famiglie, sfollate per salvarsi dai bombardamenti, tanto che si formò una grande comunità che contava più di cento persone.
Il 2 luglio del 1943 al Vaticano si festeggiò la caduta del fascismo con una ballata, crescentine e vino. Tutti erano stanchi della guerra e la caduta di Mussolini ci faceva sperare che presto sarebbe finita.
Invece l'8 settembre 1943 ci fu l'occupazione tedesca e da quel giorno iniziò un periodo duro di atrocità da parte dell'occupante e dei fascisti che, appoggiati dai tedeschi, avevano alzato la testa.
Al Vaticano c'erano diverse famiglie antifasciste come quella di Valentino Monteventi, Dario Parmeggiani, Oddone Baiesi, Cocchi il sarto, Augusto Baiesi, Cremonini, Minelli Armando, Galassi Franco, Onelio Monteventi, Malaguti Alfonso, Antonio Mattioli, Bonci e altre.
Da noi venivano la Laura Cocchi e la Bice Minelli. Erano le staffette della base partigiana che si era formata al Vaticano, noi collaboravamo ed aiutavamo la Resistenza con viveri.
Tutte le volte che facevano un rastrellamento al Vaticano, anche la nostra cascina e la casa venivano circondate e perquisite dalle S.S. e dai repubblichini; malgrado ciò, la nostra collaborazione alla Resistenza non venne mai meno.
In seguito il Comando di zona ritenne più sicuro far spostare i componenti delle famiglie sopracitate, che erano ricercati, in alter basi più sicure.
La situazione diventava sempre più difficile e pericolosa per chi era senza permesso di circolazione.Nostro padre riteneva più prudente per Claudio, che aveva solo 16 anni, arruolarlo nella todt, ma il 5 dicembre 1944, giorno del grande rastrellamento (nessun "papir" contava), venne arrestato ugualmente assieme ad altri e portato nelle scuole di Anzola. Vennero selezionati e inviati nelle carceri di S. Giovanni in Monte a Bologna.
Cominciammo a darci da fare per farlo liberare. Poco tempo prima, un tedesco della Weermacht aveva fatto scuola a Claudio e conosceva bene il ragazzo;lo rintracciammo, ma quando intervenne presso il Comando delle S.S. era troppo tardi, Claudio era già stato inviato nel campo di concentramento di Mauthausen.
I mesi che ci separarono dalla Liberazionefurono angosciosi e pieni di speranze.
Dopo la Liberazione tutta la famiglia aspettava Claudio, come del resto facevano tutti i famigliari degli arrestati e deportati.
Il primo ad arrivare in paese fu Romano Tagliavini, ci recammo da lui, era magro da far paura, raccontò le atrocità che i nazisti praticavano sui prigionieri, cose che facevano rizzare i capelli. Mio fratello era sempre stato con un gruppetto di Anzola, ma, come disse Romano, molti non hanno resistito, sono morti pochi giorni prima di essere liberati e Claudio era fra questi.
Quando ritorno mio cognato Cesare Buldrini, anch'esso deportato in quel campo, confermò purtroppo la tragica notizia.
Claudio aveva solo 16 anni".
La staffetta Ada Luppi ricorda
"I miei famigliari da Buonconvento, una frazione di Sala Bolognese. Mio padre Alberto faceva il calzolaio e la mamma, Enrica Zini l'aiutava.
Mio padre era socialista era un uomo con molta dignità; siccome aveva una famiglia numerosa(sette figli), non navigava nell'abbondanza; quando il regime cominciò a distribuire la "sporta" di viveri come assistenza alle famiglie numerose e bisognose, mio padre la rifiutò, perchè non voleva la carità "pelosa" di un regime che aveva distrutto con la repressione le organizzazioni democratiche che tanto avevano contribuito a migliorare le condizioni di vita dei lavoratori.
Non ho mai dimenticato quella sera quando riunì la famiglia e disse che dovevamo rammentare per quando saremmo stati capi famiglia che, il pane, i lavoratori se lo dovevano guadagnare con il lavoro e la lotta.
In seguito ci trasferimmo a Bologna."
L'Ada mi racconta un episodio molto significativo: "Eravamo in tempo di guerra, mia sorella Irma lavorava alla saponeria e ad una sua compagna di lavoro era morto il marito al fronte, siccome aveva due bambini piccoli, le compagne decisero di fare una colletta per venirle in aiuto.
La polizia insospettita che quell'atto delle lavoratrici potesse avere un significato politico, saputo che l'iniziativa era partita da mia sorella e conosciuta l'origine della famiglia, mandò un agente di polizia per informarsi circa lo scopo della sottoscrizione, anche perchè l'organizzazione clandestina aveva il "Soccorso Rosso" e spesso i soldi per aiutare i compagni bisognosi venivano raccolti fra i lavoratori nelle forme più svariate come in occasione di matrimoni, compleanni o per disgrazie famigliari ecc...
A seguito dei bombardamenti in città, sfollai a Péalazzo Albergati di proprietà Barbieri(Anzola). Era cominciata l'attività partigiana.Attraverso mio marito Nazzarro Tibaldi il contadino Masi, sempre della tenuta Barbieri, nmi misi a disposizione della Resistenza. All'inizio giravo con delle sporte di viveri che la famiglia di Maria Martinelli preparava per i partigiani e che portavo dove mi indicavano, poi con borse di armi e munizioni che mascheravo con viveri.Ne ho portate nei pressi di S. Giovanni in Persiceto e in punti stabiliti nella Via di Mezzo. Ho mantenuto i collegamenti con Ada Zucchelli, finchè il 14 settembre del 1944 in un conflitto a fuoco con la brigata nera, avvenuto nei pressi di Pontelungo, rimase senza munizioni e fu presa dalla brigata nera.
Vedi Anna, quello che sto per dirti, dirai che non c'entra con la tua ricerca, ma io voglio ricordare quella meravigliosa ragazza con la quale ho lavorato.
Come è già noto, gli Zucchelli erano generazioni antifascisti, era una famiglia tartassata e discriminata.
I fratelli Zucchelli erano orfani di tutti e due i genitori; uno dei due, Duilio era stato confinato, mentre il più anziano, seppur cagionevole di salute fungeva da capofamiglia; anche Ada all'età di venti anni circa fu ricoverata nel convsalscenziario Villa Chiara di Casalecchio di Reno per una lunga degenza. Queste carenze erano dovute alle ristrettezze in cui la famiglia era costretta a vivere, causa le loro idee antifasciste.
L'Ada, l'8 settembre 1943, qando l'Italia fu occupata, lavorava in una piccola azienda metalmeccanica in via Olindo Guerrini. Per la serietà e attaccamento all'antifascismo, fu una delle prime staffette a mettersi a disposizione dell'organizzazione pur continuando a lavorare in fabbrica.
Si dimostrò subito diligente, riservata, puntuale nel lavoro e coraggiosa, ispirando in tal modo la piena fiducia dei dirigenti dell'organizzazione.
Quando non fu più compatibile la sua permanenza in fabbrica con gli impegni che l'organizzazione le dava, il Comando di Bologna decise di farla uscire dalla fabbrica per utilizzarla a tempo pieno nell'attività clandestina.
L'uscita comportava un sacrificio economico per la famiglia, perchè quel salario rappresentava gran parte del reddito famigliare che i ristrettissimi mezzi economici dell'organizzazione clandestina, in fase di sviluppo, non era in grado di sopperire.
Ma la famiglia non pensò affatto agli ulteriori sacrifici che avrebbe dovuto affrontare, per loro l'obiettivo principale era la lotta per la libertà e l'indipendenza del Paese. I fratelli furono fieri che la sorella più piccola godesse la stima dell'organizzazione fino a chiederle la sua completa disponibilità.
Come ti ho detto all'inizio, fu presa perchè rimasta senza munizioni, assieme a Roveno Marchesini e Irma Pedrelli. Saranno fucilati il 18 dello stesso mese. Presi il suo posto per un periodo di tempo, finchè il Comando disse a Nazzarro di rientrare nella casa di Bologna in via Cà Selvatica.
Dopo la battaglia di Porta Lame ho avuto fino a 17 partigiani fra i quali Dario, William, Bevero, Cucchi.
Con tutto sto comando in casa avevo bisogno di girare, quindi usavo la bicicletta per spostarmi più rapidamente.
Due donne uccise ad Anzola il 10 settembre 1943 durante l'assalto all'ammasso del grano
Man mano che il fascismo si preparava alla guerra (aggressione all'Etiopia, alla Spagna democratica ecc..) anche l'economia italiana veniva indirizzata prevalentemente a produzione bellica.
La politica fascista riduceva inoltre progressivamente la possibilità di rifornimento delle materie prime presso i paesi che le possedevano, paesi a regime democratico come Inghilterra, Francia, Belgio, Stati Uniti.Da qui la necessità per il regime di darsi una economia autarchica.
L'agricoltura assunse un'importanza rilevante, e, particolarmente il grano, in quanto l'alimento base dei lavoratori italiani era pane e pasta.
Questo era il motivo per cui il fascismo, già da molti anni, aveva istituito quella che chiamò "battaglia del grano". Via via che la situazione internazionale si aggravava, l'economia italiana ne risentiva, per cui il regime per far fronte alla situazione instaurò il razionamento dei generi di prima necessità, aggravando ancor di più le condizioni di vita dei lavoratori. Impose una politica di ammasso del grano con l'intento di accumulare scorte sufficienti per un eventuale prolungamento della guerra.
Questa politica era attuata anche dai nazisti: in Germania il razionamento dei generi alimentari e di prima necessità era cominciato fin dal 1934.
La fame cominciò a farsi sentire quando i contadini furono costretti dalle autorità a portare tutto il grano all'ammasso.
Inoltre dovevano denunciare quanti ettari di terreno avevano seminato a grano, quanti a granoturco (che era il pane dei poveri per tutto l'inverno), a patate, a canapa ecc... Bisognava pure denunciare maiali e mucche e fare denuncia quando figliavano.
Le famiglie che potevano contare su tali risorse erano tenute continuamente sotto controllo dalle gerarchie locali. Le madri che dovevano sfamare le loro creature (ed in tempo di guerra di bambini ce n'erano molti) non sapevano più dove sbattere la testa. Le ragazze, al tempo della mietitura, stavano attente ai covoni di grano che rimanevano nel campo in attesa di essere portati con il carro tirato dai buoi sull'aia, al momento opportuno li andavano a prendere senza essere viste.
Di notte al lume di candela le donne lavoravano per pulire dalle scorie i chicchi di grano; l'ultima operazione la facevano con il macinino da caffé a mano. Con tutte queste manovre riuscivano sì e no a racimolare qualche manciata di farina che la mattina impastavano con l'acqua e cuocevano sulle braci a mo' di focaccia, rimediando così la colazione, mentre ilpane nero tesserato era arrivato a un etto e mezzo al giorno, a testa.
Le donne, la mattina, si salutavano e sottovoce dicevano "Accidenti a Mussolini, ho il braccio destro che non lo sento più, stanotte ho macinato fino alle tre". "Dillo a me", replicava la Fernanda che aveva sei o sette figli. "I miei ragazzini digeriscono subito per cui non faccio in tempo a metterli a letto che già mi chiedono del pane". Poi concludeva sottovoce: "Io ogni volta penso al grano che sta all'ammasso". Tirava un lungo sospiro, andava in casa e metteva a bollire una patata a testa per la cena.
C'erano donne sfollate, che giravano la campagna per intere giornate in cerca di cibo.
Erano proibiti gli assembramenti, ma con la caduta di Mussolini c'era aria di libertà, le donne cominciavano a ribellarsi alle leggi che facevano patire la fame ai loro figli, mentre tonnellate di grano erano là dentro. Ora le donne non sussurravano più guardandosi attorno, imprecavano ad alta voce incuranti di chi poteva sentirle.
Appena arrivò Duilio Carpanelli dal confino fu fatta la prima riunione alla Ca'del Macero dai Panzarini. Vi partecipò il capo famiglia, Luigi, detto il "Mantvan" (Mantovano), i figli Antonietta, Bruno e Lino, quest'ultimo sconterà tre anni di confino dal 1930 al 1933, c'era Raffaele Buldini che diventerà sindaco dopo la Liberazione, lo zoppo Melega,Clorindo Grassilli, Cesare Landuzzi, Tagliavini.
Furono presi i primi contatti con i vecchi compagni per vedere il da farsi. MA la situazione precipitò l'( settembre con la firma dell'armistizio con gli alleati da parte del governo Badoglio e con la conseguente rottura dell'alleanza con i tedeschi.
Una delle prime misure che gli occupanti presero contro l'Italia fu la requisizione dei generi alimentari. Nella giornata del 9 settembre l'atmosfera era molto pesante, quelli che ritornavano dalla città dicevano che i tedeschi facevano prigionieri i nostri soldati;le donne del popolo aiutavano i soldati a scappare dandoloro indumenti borghesi.
I tedeschi entravano da padroni nelle fabbriche che producevano alimentari come a Peschiera, Casaralta, Bertagni, Santi ecc..., facevano man bassa, portando via tutto quello che trovavano nei magazzini e lo spedivano in Germania.
Queste notizie allarmarono le donne di Anzola. Il giorno nove fu un correre da una borgata all'altra avvisando che il grano dell'ammasso, prodotto dai nostri contadini, sarebbe partito con un convoglio di attrezzature utensili che era fermo sui binari della ferrovia, due vagoni erano però riservati per il grano che i tedeschi avrebbero inviato in Germania per continuare la guerra.
La mattina del 10 settembre 1943 cominciarono ad arrivare donne dalle diverse borgate, tenevano ben nascosto un sacco di tela, si avviarono chi in bicicletta e chi a piedi verso l'ammasso che era in via Emilia, erano circa le 10.30.
L'ammasso era protetto da una rete metallica, le più giovani e magroline, dopo aver forzato la rete in diversi punti, vi passarono sotto, mentre Oddone Guermandi, Marino Montorsi, Bavieri ed altri facevano saltare la serratura e tiravano su la saracinesca. Ai loro occhi si presentò una montagna di frumento, un attimo di meraviglia, poi le donne entrarono come un ciclone urlando: "Pane! Pane!".
E' tutto un gridare, si accavallano, sprofondano nel grano fino al ginocchio urlando la loro gioia. Stendono il sacco sul grano, con una mano lo tengono aperto e con l'altra a mo' di pala cercano di riempirlo. Tutti hanno un solo desiderio,prendere il grano nel minor tempo possibile e scappare.
Quelli che sono in due o in tre in famiglia, riescono a portarne a casa, ma la maggioranza delle donne sono sole ed il sacco lo vogliono riempire almeno a metà.
E' passato sì e no circa mezz'ora, quando qualcuno urla: "I tedeschi! I tedeschi!". Tutte cercano di fuggire, chi con il sacco e chi senza, c'è chi salta la rete, chi ripassa sotto, chi si ranicchia nel fossato.
I tedeschi sono in due, in motocicletta, sono armati di moschetto, uno prende la mira e spara; sotto il piombo nazista, ai piedi dell'ammasso, cade per prima l'Amelia Merighi in Vellucci, sfollata.
Il tedesco non è contento, rincorre un'altra donna che si è già allontanata dall'ammasso un centinaio di metri, prende la mira e questa volta spara alla schiena, cade Emilia Bosi, vedova Masina.
Questo grave fatto di sangue accrebbe nelle donne di Anzola l'odio contro gli occupanti.
L'Emilia Bosi e l'Amelia Merighi non sono mai state ricordate nelle manifestazioni ufficiali,ma sono rimaste nel cuore delle donne di Anzola, mai dimenticate, perché esse furono le prime cadute della guerra di liberazione del paese.
Nelle mie ricerche mi sono valsa delle testimonianze delle compagne e dei compagni che parteciparono personalmente a quell'azione: Nella Torelli, Isolina Turrini, Lidia Vigherani, Corina Cacciari, Giulia Sarti, Paola Fiorini, Oddone Guermandi, Maria Buldini, Fernanda Chiarini, Maria Parmeggiani.
RAFFAELE BULDINI
In un ricordo della moglie Maria e della figlia Paola
"Mio marito proveniva da Minerbio, centro agricolo della bassa bolognese con un numeroso bracciantato molto combattivo
La madre si chiamava Olimpia ed era una donna energica, era dotata di una forte personalità ed aveva acquisito attraverso le lotte bracciantili una grande esperienza della vita.
Raccontava le lotte che aveva fatto durante gli scioperi, ma quello che amava ricordare era quello avvenuto all'inizio del secolo, che costrinse i padroni ad accettare le loro richieste. Quando parlava di politica, i suoi occhi, seppur stanchi, sprigionavano una grande luce che le illuminava il viso; raccontava la grande soddisfazione di tutta la famiglia per la vittoria socialista. Nel 1908, infatti, per la prima volta il comune di Minerbio fu diretto dai rappresentanti del popolo. Io, sposina giovane, l'ascoltavo piena di ammirazione.
Le donne di Minerbio, quando il governo dichiarò guerra alla Libia nel 1911, unite, lottarono per impedire la partenza dei loro uomini. Era una donna formidabile - continua Maria -. aveva sempre festeggiato la festa dei lavoratori. L'anno che andarono ad abitare ad Anzola dell'Emilia nei pressi della borgata Olmo nel 1921-1922, non ricordo, in pieno squadrismo fascista, il Primo Maggio issò una bandiera rossa sopra il tetto della casa e disse "Voglio vedere chi me la viene a togliere!"
Fu l'unica in tutto il paese e la gente diceva che nonna Olimpia era più coraggiosa del nonno.
Raffaele, fin da ragazzo, era interessato alla politica, amava stare con la gente di sentimenti democratici e gli piaceva molto leggere. Lo zio Vincenzo, che era un socialista, vedendo l'interesse del ragazzo gli diede le prime nozioni di politica.
Iniziò a fare il barbiere nei militari. Suo fratello Quinto aveva un negozio da barbiere e, quando morì, Raffaele rilevò il negozio e ci trasferimmo a Bologna, era il 1929.
Fu proprio qui in città che la politica per lui divenne una vera passione.
Ricordo l'allenza fa tedeschi e fascisti attraverso il cosidetto Patto d'Accaio, lui lo giudicò un fatto grave per l'Italia, in quanto erano stati i fascisti e i tedeschi che avevano soffocato la Repubblica popolare spagnola e lui diceva che si preparavano apertamente alla guerra. Quando Hitler incorporò l'Austria, Raffaele disse che quelli erano i primi atti di una guerra imminente.
L'attività sua diventò più intensa allorché Hitler e Mussolini aggredirono le piccole nazioni europee come Cecoslovacchia e l'Albania.
A quanto sappiamo noi, nel 1939 Raffaele prese i primi contatti con l'antifascismo organizzato attraverso uno che noi conoscevamo, si chiamava Mastini.
Con lo scoppio della guerra e i bombardamenti in città la nostra famiglia sfollò ad Anzola: anche quello era un paese notoriamente antifascista per le sue tradizioni di lotta che portarono parecchi compagni al Tribunale Speciale e al confino.
La Maria dice che dell'attività del marito sa ben poco, perché lui, in casa, non ne parlava. Sa che era sempre impegnato, mangiava in fretta.
"Mi sembra ancora di vederlo tutto indaffarato con la sua valigetta dal doppio fondo: sopra c'erano articoli di profumeria e barba, mentre sotto metteva la stampa clandestina. Quando usciva da casa assumeva un aspetto disinvolto ed innocuo e con la bicicletta percorreva la campagna".
Nella nostra ricerca la figura del compagno Buldini emerge con forza. Ancora oggi, a tanti anni di distanza, le persone che lo hanno conosciuto lo ricordano con tanto affetto.
Dopo l'8 settembre 1943, Buldini si rivelerà un capace ed instancabile organizzatore della Resistenza.
Aveva certamente assimilato l'esperienza delle lotte bracciantili. Trasferitosi in città aveva subito appreso la tattica e i metodi della lotta clandestina ed antifascista nel grande centro di Bologna, ove l'organizzazione non ebbe mai soluzione di continuità.
Sfollato ad anzola si mise subito alla testa del movimento dimostrando capacità e persuasione.
Buldini, che conosceva i sentimenti democratici degli anzolesi, si rivolse loro con fiducia per portarli alla lotta per liberare il paese.
Quando si recava in una famiglia per chiedere il suo contributo alla Resistenza, ne usciva sempre con una piena adesione e da quel momento tutti i familiari si sentivano impegnati ad appoggiare la lotta.
In questa sua attività, che era fondamentale, si rivelò molto capace e con la collaborazione degli elementi che via via emergevano nella lotta per le loro capacità, in poco tempo costruì una ragnatela di basi che comprendeva la maggioranza delle cascine anzolesi.
Buldini conosceva le tradizioni di tali casolari che erano stati dei piccoli centri di lotta fin dall'Unità d'Italia.
La sua conoscenza della storia gli dava forza, aveva capito i giovani e tutta la popolazione che con la guerra volevano farla finita, insegnava loro che soltando entrando nella Resistenza ciò sarebbe stato possibile.
Era sicuro che nessun lavoratore avrebbe rinnegato la storia dei suoi antenati che era una storia di lotta, di sacrifici, ma che aveva dato grandi risultati per il miglioramento della vita del popolo.
Dopo il grande rastrellamento del dicembre 1944, buldini raggiunse la divisione Modena, nella quale combatte fino alla Liberazione.
LA STAFFETTA CORINA
racconta la morte di Erminio Melega (Tarzan) e altri episodi della Resistenza ad Anzola
"La mia famiglia è sempre stata antifascista.Mia madre era una bracciante ed aveva partecipato alle lotte dei campi ed era più accanita di mio padre.
Quando fummo più grandi raccontava a noi figlie le ingiustizie e tutte le carognate che facevano i fascisti per far star zitte le donne, sia con l'olio di ricino, sia con il nerofumo.
Alla caduta del fascismo mi trovavo fuori Bologna e non potei gustare assieme ai paesani l'aria di libertà che coinvolse il paese. mia madre, però, mi raccontò tutto, perché anche lei, assieme alle altre donne della borgata Salvagna, andò nella piazzetta a manifestare la sua gioia.
Arrivai a casa all'inizio d'agosto, la gente era euforica, infatti tutti pensavano che ci sarebbe stata pace e democrazia senza spargimento di sangue. La scarcerazione dei politici fu di grande stimolo per la rinascita delle organizzazioni democratiche.
Erano caduti i podestà fascisti, si attendevano disposizioni dal governo Badoglio per organizzare i comuni democraticamente. I sindacati fascisti si erano sciolti come neve al sole, i lavoratori sui luoghi di lavoro eleggevano i loro rappresentanti interni, ma non c'era un centro dei sindacati che desse indicazioni. I partiti antifascisti, P.C.I. - D.C. - P.L.I. - P.R.I.- P.S.I.U.P. e il Partito d'Azione, seppur non riconosciuti, perché c'era lo statp d'assedio, si andava organizzando clandestinamente, ci fu una grande adesione specialmente da parte dei giovani. In questi giorni fui avvicinata dalla Antonietta Chiarini, anche lei della nostra borgata, mi spiegò diverse cose; quando dissi che avrei dato una mano anch'io mi fissò un appuntamento con Raffaele Buldini, Dante Sarti e Duilio Carpaelli. Fu in quell'incontro che aderii con entusiasmo alle organizzazioni democratiche che stavano nascendo e fu in quella stessa riunione che si decise per l'assalto all'ammasso del grano, cosa molto sentita dalle donne. Non solo, ma tenendo conto della situazione del momento, l'obbiettivo immediato delle forze democratiche era la cessazione della guerra, perché non si spiegava che un governo nominato dopo la caduta del fascismo continuasse la guerra di aggressione contro paesi democratici.
Nel tardo pomeriggio dell'8 settembre 1943 la radio annunciò l'avvenuta firma dell'armistizio chiesto da Badoglio e concesso dagli alleati. Ci fu una esplosione di entusiasmo, per le strade tutti gridavamo: "La guerra è finita!".
Il governo Badoglio aveva impartito l'ordine (almeno così diceva la radio) che, contro chiunque ostacolasse la sua azione, l'esercito aveva il compito di reagire per garantire le clausole dell'armistizio e l'integrità del territorio nazionale.
Ma l'entusiasmo durò poco. Poche ore dopo il proclama di Badoglio si notò una grande movimento di forze tedesche; nei campi di Lavino di Mezzo vi erano centinaia di tedeschi che durante la notte e nelle prime ore dell'alba procedettero all'occupazione militare dei centri vitali e chi si opponeva veniva subito passato per le armi.
La mattina del 9 settembre, centinaia di soldati italiani vennero fatti prigionieri dai tedeschi, caricati in vagoni ferroviari piombati e deportati in Germania. La sera dell'8 settembre le organizzazioni democratiche nascenti cercarono di prendere contatto con i militari e fu grande la delusione appena si intì che i comandi italiani non avevano dato nessuna disposizione. Tutto era lasciato alla responsabilità dei songoli comandanti, confermando con ciò che il problema di Badoglio era rimasto in gran parte lettera morta.
Le nascenti organizzazioni democratiche, consce della portata della catastrofe, mobilitarono subito donne e cittadini per sottrarre ai tedeschi più soldati e ufficiali possibili, nascondendoli provvisoriamente in cantine e rifigi occasioneli, rivolgendo a chiunque un appello perché dessero indumenti borghesi per travestire i nostri militari; in quei giorni la divisa militare italiana era molto pericolosa. I tedeschi davano una caccia spietata ai soldati sfuggiti alla prigionia, per cui bisognava evitare questo pericolo.
Si può dire che questa fu la prima grande azione patriottica italiana antifascista contro l'ivasore tedesco, anche se non esisteva ancora un centro unitario politico coordinatore del movimento.
Appena ci riunimmo per il da farsi, fu unanime il parere che il popolo aveva risposto energicamente e spontaneamente con tanto coraggio, anche senza una guida ben determinata.Questo fatto ci fece sperare che la nostra azione di lotta contro l'ivasore, avrebbe incontrato l'adesione di tutti gli strati sociali. Fu in quella riunione che decidemmo di dare l'assalto all'ammasso e la parola d'rdine fu: - Nemmeno un chicco di grano ai tedeschi-.
La mattina del 10 settembre 1943 le donne diedero l'assalto all'ammasso del grano.I tedeschi spararono sulle donne, due madri di famiglia rimasero uccise.
Questo orribile delitto non frenò lo spirito combattivo delle donne di Anzola, anzi l'odio contro gli occupanto crebbe.
Il 1° settembre Mussolini, che era prigioniero al Gran Sasso, fu liberato dai tedeschi e portato in Germania e là ricostituì il partito repubblicano fascista, con l'appoggio dei tedeschi. Rientrò in Italia e a capo delle forze armate mise il maresciallo Graziani con il compito di rocostituire l'esercito in sfacelo. Graziani tribolò un bel po' per mette assieme qualche coccio. Fece un proclama che affisse a tutti i muri delle città e dei paesi, dove diceva che coloro che ricevevano la cartolina di precetto dovevano presentarsi. I renitenti sarebbero stati puniti secondo le leggi di guerra.
Fui chiamata a una riunione su per la scala della locanda dove Buldini occupava una vano per la sua attività di barbiere. Si discusse della prima azione fatta dalle donne e di chi aveva partecipato, e della reazione che avevano avuto, perché, come dissero Sarti e Buldini, noi avremmo avuto molto bisogno delle donne.
Al proclama di Graziani i giovani risposero negativamente.
Questa reazione dimostrava che i giovani erano contro i nazifascisti e fu così che cominciammo a anasconderli qua e là. Fu anche un incoraggiamento per il movimento partigiano che si stava formando.
Il sabotaggio si manifestava in tutte le forme ed in particolare contro i mezzi di comunicazione (ferrovie, telegrafi, strade mestre ecc..) Questo impose a fascisti e tedeschi la necessità di creare un corpo ausiliare di polizia con il compito di vigilare e garantire le vie di comunicazione. Naturalmente questo corpo (polizai) fu reclutato forzatamente con un provvedimento.
Li armarono con fucilacci antiquati e lasciati senza munizioni.Non era difficile, fra i reclutati, avere dei ragazzi legati a noi, infatti, quando il comandante partigiano di Anzola decise di disarmarli, non solo non trovò resistenza ma i "polizai" si dimostrarono degli sconfitti contenti. L'operazione si può dire che fu tragicomica, perché la resistenza dei "polizai" fu nulla. Per l'opinione pubblica figurò come una colossale operazione di partigiani venuti dalla montagna. Propagandatrici di questa farsa furono le donne perché intuirono che era una propaganda che dava fiducia al popolo e quindi avrebbe favorito il reclutamento per le formazioni partigiane.
Ci trovammo nella necessità di formare le prime basi partigiane. Per questo importante problema facemmo una riunione molto allargata con Buldini, Tagliavini, Dante Sarti, Panzarini, Turrini, Carpanelli.
In quella riunione si parlò dei nostri contadini che avevano una lunga e bella tradizione di lotta, si parlò del sindaco socialista Goldoni che gli anzolesi avevano eletto per un ventennio, delle leghe, delle lotte per i patti agrari, delle loro cooperative, di tutte quelle conquiste che avevano saputo ottenere mediante lotte e sacrifici e che il fascismo aveva soppresso. Molti contatini, disse Carpanelli, sono stati condannati dal Tribunale Speciale.
Insomma, in un paese come il nostro non avremmo trovato difficoltà. Nel giugno e luglio si formarono le prime basi partigiane, ed una di esse fu presso la famiglia Baroni. anche le staffette, al nostro paese, non fu difficile trovarle; in poco tempo si moltiplicarono fino a diventare una ragnatela che si diramava su tutto il territorio.
Se non fu difficile trovare le staffette, un altro fu prepararle politicamente,perché fossero in grado di svolgere il loro compito. Occorreva fossero riservate ed accorte per non essere sospettate dai fascisti e dai tedeschi. Una donna che si sposta da una zona all'altra del paese, carica di borse, sporte o sacchi può finire per dare sospetto (non dimentichiamo che in quel momento c'era un forte mercato nero che se da una parte facilitava, dall'altra era sempre un elemento di sospetto delle autorità).
Infatti la staffetta Iole Zini, che era una brava ragazza, nei pressi della frazione S.Giacomo del Martignone fu avvicinata da due individui che le intimarono di smetterla con "quel lavoro". La staffetta, senza nascondere di essere stata intimorita, mi parlò subito e manifestò preoccupazione per l'appuntamento che aveva il giorno dopo. Da parte mia non mi meravigliai di quello che era successo e la tranquillizai, per l'appuntamento avrei provveduto altrimenti, la consigliai di sospendere l'attività di staffetta, sarebbe stata utilizzata in un altro lavoro meno esposto. Siccome l'appuntamento cui doveva andare era molto importante e non vi era il tempo per la sua sostituzione, credetti giusto andarci io in quanto conoscevo il compagno da incontrare.Purtroppo, arrivata nei pressi di Lavino di Mezzo, mi imbattei in una colonna tedesca la quale era presa di mira da apparecchi alleati a bassa quota. Mi gettai nel fosso per proteggermi a poca distanza dagli stessi tedeschi. Quando cessò l'allarme, mentre gattoni, tirandomi dietro la bici, cercavo di raggiungere la strada, passò il compagno chiamato "Nonte" Monteventi con la macchina (lui era autista dei Bassi, padroni della polveriera di Anzola), chiese cosa facevo, gli dissi che avevo un appuntamento urgente e che questo contrattempo era per me una cosa grave. Il Nonte intuì la cosa, mi invitò a salire in macchina e caricò anche la bicicletta, permettendomi di arrivare all'appuntamento con "Cinto" in tempo utile. Ho voluto narrare l'episodio per sottolineare la coscienza che dimostrò questo compagno.
In quel momento, stagione della trebbia, per il movimento partigiano era un problema di primaria importanza impedire che il grano della Valle Padana prendesse la via della Germania, perché non solo voleva dire la fame per noi, ma anche dare ai tedeschi un forte respiro per continuare la guerra.Bisognava battere il grano per non lasciarlo marcire (nelcomitato clandestino avevamo discusso di quanto era successo nel 1920 durante le lotte agrarie allorchè il grano fu lasciato sulle aie, senza trebbiarlo fino all'autunno e, quandolalotta fu conclusa e si iniziò la battitura, gran parte del grano era marcio e di ciò pagarono soprattutto i lavoratori). La trebbiatura era sorvegliata dai repubblichini e noi volevamo sottrarre il grano. Come fare allora? Giudicammo fosse indispensabile coinvolgere tutta la popolazione per far sì che l'azione permettesse di trattenere il grano in un luogo. Il Podestà non sentiva questo problema. Organizzammo una manifestazione di donne nella località "Immodena" dove il municipio era sfollato, per costringere il capo del Comune a fare il suo dovere.
La manifestazione fu un grande successo. Era il luglio 1944. oltre 200 donne incuranti del pericolo parteciparono con entusiasmo alla manifestazione. Quando irrompemmo negli uffici, il Podestà era "uccel di bosco" e, siccome il segretario non voleva prendere una decisione, il partigiano Bolognini e il partigiano "Tarzan" si fecero avanti e gli dissero di ritirare i repubblichini dalle aie dove si trebbiava. L'azione ebbe l'effetto voluto, i contadini furono d'accordo la manifestazione. Oltre 300 quintali di grano furono sottratti alla forzata requisizione.
La manifestazione allarmò comprensibilmente i tedeschi e i fascisti per cui il giorno dopo operarono un rastrellamento nella località Foiano; purtroppo il partigiano "Tarzan" che aveva un appuntamento in quella zona e non sapendo del rastrellamento vi cadde dentro e fu fucilato. I fascisti, vigliaccamente, posero un cartello sul suo corpo con su scritto "sconosciuto", certamente per vendicarsi della sconfitta subita il giorno prima quando non erano riusciti ad impedire la grande manifestazione di Immodena.
Lo "sconosciuto" era viceversa conosciutissimo e la morte di "Tarzan" toccò profondamente il sentimento popolare che lo aveva visto come un sincero difensore dei diritti del popolo. In un baleno si sparse la notizia dell'uccisione del partigiano cosiddetto "sconosciuto" dalle autorità, ma profondamente amato dagli anzolesi tanto che la sua bara fu interamente coperta di fiori.
Il comando provinciale aveva trasferito "Tarzan" (compagno Erminio Melega) dal suo paese d'origine, Castelmaggiore, dove si era già distinto per coraggio e capacità di direzione del movimento partigiano, ad Anzola Emilia con il compito di rafforzare il nucleo dirigente. In seguito il distaccamento di Anzola prenderà il nome di "Tarzan".
Malgrado la reazione fascista e tedesca la situazione evolveva in favore della Resistenza. Dopo la presa di Firenze, i tedeschi pensavano di fermare gli alleati sulle cime più alte dell'Appennino tosco-emiliano che avevano debitamente rafforzato, costruendo quella che chiameranno la "Linea gotica". I loro piani fallirono,perché la Linea gotica investita non resistette alle forze alleate, sia pure a tappe rallentate, marciarono verso la Pianura Padana. Questo fatto diede a tutti la speranza che la gurra sarebbe finita entro il '44. Per il movimento partigiano si trattava di prepararsi per coinvolgere tutta la popolazione nella imminente insurrezione nazionale di liberazione.
Fu in questo quadro che il comitato clandestino antifascista decise di organizzare un comizio vero e proprio da tenersi nel podere Lorenzini, eravamo nel settembre 1944. Alla manifestazione parteciparono numerosissimi contadini. Per impedire eventuali aggressioni da parte dei nazifascisti, il posto designato per il comizio,a debita distanza, fu protetto dai partigiani. Si era verso la metà di settembre. Oratore designato fu il compagno "Sergio" Nerio Nanetti, attivo antifascista che aveva già scontato anni di confino e che i repubblichini di Salò avevano incarcerato. Era fra il gruppo partigiani ed antifascisti detenuti nel carcere giuduziario di S.Giovanni in Monte e liberati il 14 agosto con una audace azione dei partigiani della 7° Gap. Inutile dire che quel colpo ebbe una grande risonanza e mise in luce la capacità offensiva dei partigiani.
il compagno Nanetti era sprovveduto di indumenti perché, come ho detto prima, era fuggito dal carcere e per fargli assumere un aspetto da oratore mia sorella gli confezionò una camicia. (Mi scuso per l'ironia, ma non volevamo che il primo oaratore democratico si presentasse agli Anzolesi non messo come meritava). Anche questa manifestazione ebbe un grande successo di popolo, dai contadini agli operai, circa 200 persone.
La riuscita della manifestazione fu dovuta particolarmente al lavoro capillare delle donne che militavano nei Gap, nei Sap, nei gruppi di difesa, delle donne che con manifestini, con contatti casa per casa hanno garantito il successo della manifestazione.
Venne l'ordine del C.U.M.E.R di far rientrare a Bologna nella base dell'Ospedale Maggiore ilmaggior numero di partigiani combattenti per l'insurrezione armata. A quella riunione parteciparono Turrini Nino, Duilio Carpanelli, Dante Sarti, Buldini, Bolognini e altri che non ricordo. Fu così che cominciammo ad inviare i partigiani in centro per apprestarsi alla liberazione di Bologna e che doveva avvenire entro il '44.
Molte donne e uomini erano impegnati a fare il pane, per la macellazione di suini e micche da inviare alla base di Bologna; più i combattenti crescevano più era necessario il sostentamento e si decise di inviare mucche da macellare sul posto.
Io, con la Iole e la Gina fummo invitate in base la vigilia della battaglia di Porta Lame. Ci accompagnò la staffetta Dina Gallerani.
La mattina dopo fummo svegliati dall'allarme dato da un partigiano, in un attimo fummo tutti in piedi. I fascisti e i tedeschi avevano scoperto la base partigiana chiamata "Del macello" che distava poco dalla nostra. Andai a portare dei panini per colazione ai ragazzi di sentinella e da là potemmo osservare senza essere visti il combattimento che durò fino a sera.
Quando il nostro comando decise di attaccare, appena buio, fui mandata con un partigiano e la bici in cerca di ricoveri di fortuna che sarebbero stati indispensabili dopo il combattimento.
Rientrammo a sera,facemmo rapporto dei posti trovati, seppur provvisori.
Noi donne del distaccamento "Tarzan" fummo chiamate dal comandante il quale ci disse - Attaccheremo appena buio, voi donne sarete più necessarie dopo la battaglia.
Salutammo il comandante e seguimmo la Stella e la staffetta Bruna. Per uscire saltammo un muretto, poi formammo due gruppetti per dare meno nell'occhio. Passammo la notte nella casa del compagno Sigfrido in via Cesare Battisti.
La mattina dopo, la compagna Bruna ci portò nella casa della Gina. Io da lì passai a S.Viola, cercavo di racimolare qualcosa da mangiare da portare ai ragazzi che erano sparsi in zona a piccoli gruppetti.
A S.Viola occultammo le armi più ingombranti, le mettemmo provvisoriamente dentro un tombino. Ricordo pure un particolare. Arrivò Bolognini con Ugo Lambertini assieme ad un americano che avevano pescato nelle campagne di Calcara. Ricordo che Sugano appena li vide disse: - Siete diventati matti? Con tante basi che abbiamo in paese lo dovevate portare proprio qui? Cosa ce ne facciamo? - Poi, si sa, fu ricevuto e trattato come uno dei nostri.
A distanza di qualche giorno i ragazzi tornarono al paese fra mille peripezie.
Riuscimmo a ricomporre le file, le basi cominciarono a funzionare, l'eco della battaglia di Porta Lame aveva fatto il giro di tutto ilpaese, e le donne piangevano i tre combattenti caduti nella battaglia.
Ed arrivammocosì al 5 dicembre, giorno del grande rastrellamento. Fu un vero terremoto, fu fatto a tappeto, casa per casa, tutto venne messo a soqquadro e il paese intero ne fu sconvolto. Tutti gli uomini rastrellati, partigiani o no, vennero portati nelle scuole del paese e lì selezionati con l'aiuto di una spia, poi furono caricati su un camion e portati via di notte. Anche noi donne eravamo in pericolo. Una staffetta di Calcara venne a prendere me e la Giulia e ci portò in una casa di contadini sulle nostre colline. Non ricordo il nome del contadino che ci ospitò, ma ricordo benissimo quando dopo una settimana volevamo tornare in paese per vedere cosa c'era di nuovo, lui non voleva, ma noi caparbie venimmo giù. Imparammo che la Lella e la Isolina erano state arrestate, decidemmo che saremmopartite la mattina dopo, senonché alle 4 delmattino arrivarono tedeschi e fascisti, circondarono la casa e ci arrestarono. Poi la camionetta attraversò il paese, invece di andare dritto, per arrivare a S.Giovanni in Persiceto (prima tappa per gli arrestati), svoltò per la strada che porta al cimitero. Sul momento non pensai che l'anna abitava proprio là, pensai invece che ci avrebbero fatto fuori. A dir la verità passai dei momenti terribili, quando invece vidi che si recavano a casa dell'Anna diedi un lungo sospiro di sollievo, per lo meno non ci avrebbero ammazzato subito. L'Anna non la trovarono, allora proseguimmo per S.Giovanni in Persiceto.
Diversi furono gli interrogatori, mi sputarono in faccia più di una volta, mentre le mani erano legate e fissate a un chiodo nel muro. Mi picchiarono, ma non un nome uscì dalle mie labbra.
In quel carcere ci siamo state fino al 6 febbraio, poi ci portarono a S.Giovanni in Monte, nel carcere di Bologna.
Debbo dire che a S.Giovanni in Monte le suore mi hanno trattata bene. Suor angela mi informava dei passi che faceva il fronte, diceva che era questione di poche settimane. Soffrivo di male alle ossa e spesso avevo la febbre ed in quei giorni di malanni la suora con le sue attenzioni cercava di alleviare le mie sofferenze. Io questo, non l'ho mai dimenticato. Arrivai a casa verso la fine del marzo 1945, i paesani venivano a salutarmi a tutte le ore, perfino di notte, venivano a vedermi e la solidarietà che mi dimostravano tutti fu una cosa molto commovente.
Purtroppo quando arrivò il giorno della liberazione ci aspettavano ancora giorni molto amari. I nostri bravi compagni che con tantocoraggio si erano battuti per la liberazione dell'Italia non ritornarono. Inutile dire che fu un'attesa spasmodica. Le ore sembravano secoli, era tutto un discutere, un rincorrere notizie che via via si dimostravano sbagliate. I giorni diventavano più amari. Un triste giorno si seppe che alla stazione di S.Ruffillo che, bombardata, era diventata una grande buca, erano state trovate delle salme. Iniziammo la ricerca che si estese alle colline circostanti, particolarmente nei pressi di Sabbiuno, purtroppo la triste realtà si verificò buttando l'intero paese nella costernazione, nella più profonda indignazione per il barbaro misfatto. Sentii mio dovere recarmi subito sul posto la mattina presto e assieme ai vigili del fuoco, anch'io munita di maschera, scesi per recuperare i corpi dilaniati dei nostri compagni combattenti e per il difficile compito di riconoscimento.
La liberazione fu certamente un grande giorno di gioia, ma la libertà era costata molto cara. Sì, molta cara!".
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